Stefania Burnelli
L’ironia graffiante di Birgit Jurgenssen per un riscatto femminile

Dalla fragilità sociale alla fragilità ecologica, dalla cultura alla natura il passo è breve e Birgit Jurgenssen lo compie con leggerezza. Contamina forme e linguaggi, sovrappone meccanismi psichici e biologici, confeziona simbiosi visive sofisticate e imprevedibili, che fanno bella prova di sé in Gamec intitolate al suo “pensiero selvaggio”.

La parola “femminismo” – che, è bene ancora ricordarlo, non è l’equivalente femminile di “maschilismo” – nella (in)coscienza collettiva ha perduto completamente la sua carica di senso e i suoi accenti di lotta, ma continua comunque a dare fastidio e forse a fare paura. Meglio pronunciarla a bassa voce anche tra le sale dei musei. Epperò non c’è dubbio che tutta una generazione di artiste nate durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra si siano specchiate nelle istanze dell’avanguardia femminista. mehr

È il caso di Birgit Jurgenssen, nata a Vienna nel 1949 e morta nel 2003, di cui sono in mostra alla Gamec fino al 19 maggio 150 lavori tra disegni, collage, sculture, readymade, fotografie, rayogrammi, gouache e cianotipie. La bella retrospettiva, che arriva dal Kunsthalle di Tubingen in Germania, rappresenta la prima grande esposizione italiana dedicata all’artista e farà tappa da giugno in Danimarca al Louisiana Museum of Modern Art di Humlebaek. “Io sono” è il titolo dell’evento, che trae spunto dall’annotazione “Ich bin” scritta a gesso su una lavagnetta da Birgit Jurgenssen nel 1995: un’autopresentazione molto semplice ma straordinariamente efficace per la sintesi di anticonformismo e di passione che in due parole riesce a convogliare.

La libertà con cui la Jurgenssen interpreta se stessa e il proprio tempo è, in effetti, disarmante. Capace di autorappresentarsi con brillante ironia, ora come vestale dei fornelli che indossa un’intera cucina elettrica a mò di grembiule, ora come massaia che letteralmente stira sull’asse un uomo in doppiopetto, ora come giocatrice di tennis ridotta a racchetta che gioca con se stessa, l’artista austriaca rifiutò sempre di fare parte di gruppi femministi perché ne riteneva le possibilità “troppo unidimensionali”.

La sua arte, d’altra parte, di sovversivo ha l’ironia, non il grido della denuncia né la veemenza dello sdegno. Ma il suo impegno per un riscatto al femminile è innegabile e costante: nel 1974, fresca di studi all’Accademia di Arti Applicate di Vienna, spedisce una lettera alla casa editrice DuMont sfidandola a pubblicare un libro sulle donne artiste: “Le donne sono molto spesso l’oggetto dell’arte, ma solo in rare occasioni viene loro permesso, e con riluttanza, di esprimersi in parole e immagini. Mi piacerebbe avere l’opportunità di confrontarmi con artiste e colleghe e non solo con uomini”; nella primavera del 1975 partecipa alla mostra MAGNA – Feminism: Art and Creativity alla Galerie nächst St. Stephan di Vienna e nello stesso anno sottoscrive la protesta contro una giuria di soli uomini in una mostra celebrativa dell’International Women’s Year; nel 1988 fonda con altre tre artiste austriache il gruppo “DIE DAMEN” (“le signore”), che per varie stagioni propone al pubblico viennese progetti e performance ricche di spirito e ironia; per più di vent’anni insegna nella master class di Arnulf Rainer all’Accademia di Belle Arti di Vienna e da quell’osservatorio privilegiato sull’arte registra: “I problemi e le questioni nel movimento femminista negli anni Settanta sono ora diventati quelli degli anni Ottanta”.

Ma il temperamento artistico di Birgit Jurgenssen è troppo eterodosso per aderire a una corrente o a un’ideologia. Così, oltre che al discorso sulla critica sociale della sua generazione, si interessa di psicoanalisi, di strutturalismo, di etnologia (ama le maschere e l’arte primitiva), e in quarant’anni di ricerca evolve un personale alfabeto espressivo che pesca nel surrealismo, attraversa l’espressionismo e approda a un’ibridazione cromatica e formale tutta soggettiva. Strizzando l’occhio, senza infingimenti, alle voghe più importanti del secondo Novecento, non ultima la pop art. Il suo tratto, nella pitto-grafia come nella sperimentazione fotografica, si mantiene fine e graffiante, mentre i temi, sempre sentiti, scivolano dall’emancipazione di genere alla dialettica tra componente istintuale e identità femminile, all’indagine sulle relazioni tra uomo e animale e, in senso più ampio, tra gli organismi viventi. Per finire con un superamento della visione antropocentrica e lo sviluppo appassionato di una personale sensibilità ecologica.

Il ventaglio vivace dei suoi interessi si rispecchia in mostra in sei distinte sezioni attraverso tutte le sale della Galleria: si parte con i piccoli disegni dell’infanzia e si finisce con i lavori più maturi, anche di grande formato, passando per l’idea di identità e di femminilità intese sia come esperienza di intimità quotidiana che come costruzione sociale. Dal gioco dei bambini al roleplay degli adulti si affrontano tutti gli slittamenti di senso e di valore tra oggetti d’uso e oggetti fetish, tra processi naturali e ibridazioni artificiali, tra l’ambiguo vitalismo della sessualità e le forzature di ciò che oggi chiamiamo “genderizzazione”. La “Scarpa incinta” del 1976, la “Santa Sebastiana” del 1983, la gabbietta in legno “Felicità imprigionata” del 1982, le serie die tableaux macabri con ragazza, gli scatti famosi – divenuti iconici – che alludono a un braccio di ferro tra potere femminile e maschile, la casa-prigione in cui la donna si tramuta in una gigantesca tigre… sono infinite e raffinate forme della sua arte, che insiste sulla centralità del corpo e delle sue trasformazioni, sul rapporto tra memoria privata e collettiva, sulle disparità di genere nel vissuto quotidiano, familiare, politico.

Dalla fragilità sociale alla fragilità ecologica, dalla cultura alla natura il passo è breve e Birgit Jurgenssen lo compie con leggerezza. Contamina forme e linguaggi, sovrappone meccanismi psichici e biologici, confeziona simbiosi visive sofisticate e imprevedibili, che fanno bella prova di sé nelle sale 4 e 5 della Gamec intitolate al suo “pensiero selvaggio”. “Un’artista mai interessata a creare un marchio di fabbrica, al punto da abbandonare un percorso appena un suo segno diveniva riconoscibile”, sottolinea Natascha Burger, curatrice con Nicole Fritz dell’esposizione e curatrice da dieci anni dell’archivio della Jurgenssen. “Questo non l’ha aiutata a essere famosa. Ma l’ha fatta essere se stessa, una persona timida, non provocatoria, che non si autopromuoveva, però estremamente appassionata all’arte in tutte le sue forme e coraggiosa nelle sue sperimentazioni. Una donna ancora da scoprire per il grande pubblico, un’artista capace di stupire”.

È una mostra perfetta per la giornata della donna, anche per interrogarci senza ipocrisia sul mondo dell’arte e per colmare lacune e carenze culturali troppo a lungo coltivate dal sistema disattento delle istituzioni, del collezionismo e della critica. Nel corso della mostra si prevedono incontri aperti al pubblico su tematiche di genere, con il coinvolgimento di filosofi, storici e studiosi del movimento femminista, artisti e letterati. Parallelamente, si terranno lavoratori per bambini e per adulti volti a riflettere sul tema dei ruoli nella società.

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