Luise von Nobbe
Birgit Jürgenssen. Unleashing the female body

«All’inizio degli anni Settanta, in Austria, il movimento femminista prende piede. Alcune di noi si sono impegnate in questo fin dalla fase iniziale e parlavano del bisogno di presentare artiste nelle gallerie molto più frequentemente. Poi alcune di queste donne sono diventate proprietarie di gallerie loro stesse e tutto questo è stato dimenticato. […] Approvo il femminismo attivo, in parallelo, ma non il fatto di usarlo per fare carriera. È necessario giusto per produrre del lavoro convincente e probabilmente le donne artiste hanno bisogno talvolta di reagire in modi più artistici»

Così dichiara nel 1975 l’artista Birgit Jürgenssen, a cui la GAMeC di Bergamo, sotto la direzione artistica di Lorenzo Giusti, ha dedicato l’ampia retrospettiva «Birgit Jürgenssen. Io sono», a cura di Natascha Burger e Nicole Fritz. L’esposizione che include oltre 150 opere – sviluppata in collaborazione con la Kunsthalle Tübingen (Germania) e il Louisiana Museum of Modern Art (Danimarca), insieme all’Estate Birgit Jürgenssen a Vienna – rappresenta uno dei primi tentativi di ripercorrere la carriera dell’artista, recentemente scomparsa nel 2003 e ancora poco conosciuta oltre i confini austriaci, oltre l’egemonia dell’azionismo viennese e il suo establishment culturale e maschilista. mehr

Birgit Jürgenssen nasce a Vienna il 10 aprile 1949. Sin da giovanissima, manifesta una minuziosa sensibilità per le parole, la scrittura e le immagini: all’età di otto anni, inizia a disegnare opere di Picasso nel suo quaderno scolastico, unendo la firma del grande maestro spagnolo con il suo nome nella sigla “BICASSO Jürgenssen”. Evidentemente sin dagli esordi l’artista non è disposta ad accettare le assegnazioni patriarcali e posizionarsi entro le coordinate conservatrici imposte dall’autorità maschile, dalla famiglia e dalle istituzioni educative.

Nella parola “BICASSO” si rivela tanto lo humor di Jürgenssen e la sua passione per il surreale, quanto la fermezza con cui metteva in discussione le strutture costitutive della società e la sua stessa identità. L’entusiasmo per i giochi linguistici, attraverso quali l’artista seziona la realtà e inganna lo spettatore, sopravvive per tutta la sua carriera; il suo stretto legame con la letteratura, e la passione per la produzione letteraria francese in particolare, si riflette nell’illustrazione dei suoi libri per bambini e l’espressione poetica accompagna, come un fil rouge inafferrabile, l’intero percorso creativo di Jürgenssen.

Negli anni Settanta, assieme con VALIE EXPORT, Maria Lassing e altre donne artiste, Jürgenssen costituiva l’avanguardia viennese che poneva, attraverso le plurali istanze estetico-artistiche, le basi per la liberazione della donna dai vincoli sociali e per una nuova comprensione della femminilità – tanto nel campo dell’arte, quanto nella vita quotidiana.

«[…] Ci siamo chieste come volevamo affrontare le questioni dell’impegno, della lotta e della politica radicale. In Austria abbiamo visto che le iniziative femministe hanno semplicemente portato processi di esclusione e volevamo raggiungere un pubblico molto vasto e variegato. Per attirare l’attenzione avevamo bisogno di un elemento di intrattenimento»

La varietà e la discontinuità dei codici espressivi utilizzati da Jürgenssen – disegno e pittura, performance e video, scultura e installazione – si concatenano attraverso due grandi tematiche. Una, il linguaggio; l’altra è il corpo che viene affrontato isolatamente, in relazione con il regno vegetale e animale, nell’interazione con altri corpi umani e nella trasformazione della condizione di un essere nell’altro (donna-insetto, donna-crostaceo, donna-albero). Attraverso varie serie fotografiche, disegni e collage, Jürgenssen si occupa soprattutto del corpo femminile, degli ideali di bellezza, dell’intimità sessuale e di una corporeità assoggettata a un ordine patriarcale della società, usando il proprio corpo come istanza esperienziale a partire dal quale elaborare i lavori.

L’istallazione fotografica «10 Tage – 100 Photos» riprende il display originale, allestito dall’artista, nel 1980-81 in occasione della sua mostra personale presso la galleria Hubert Winter, e rende visibile la grande abilità trasformativa di Birgit Jürgenssen e la sua curiosità per il mascheramento, i cambi di identità e le denunce degli stereotipi culturali. Metà persona, metà animale sembra uscire dalla sua parvenza umana per divenire un essere indipendente dalle condizioni dell’esistenza reale, che non risponde più alle fantasie erotiche dell’uomo.

In tanti disegni Birgit Jürgenssen affronta la rappresentazione della donna come casalinga e il suo corpo come oggetto di utilizzo quotidiano a favore dell’uomo e della famiglia. Con un’ironia pungente, provocatoria e sovversiva, frammenta e riduce il corpo femminile a delle macchine da lavoro spesso senza testa o volto. Le gambe, la schiena, le braccia diventano delle estensioni di oggetti funzionali al lavoro domestico – un ferro da stiro, una scopa o un tappetto decorativo. La casa, considerata come habitat naturale della donna, appare inseparabile dalla sua padrona, spesso prigioniera in una gabbia dorata.

Il motivo della gabbia, del corsetto, della catena immobilizzante si ripete. In uno dei suoi lavori più noti, la performance «Grembiule per casalinghe» (1974/75), l’artista in prima persona si presenta incastrata in un forno “indossandolo” come grembiule da cucina posizionato davanti al corpo. L’azione messa in scena da Jürgenssen in occasione della mostra «MAGNA – Feminism: Art and Creativity», curata da Valie Export alla Galerie nächst St. Stephan, è oggi considerata tra le più iconiche e radicali dell’avanguardia femminista internazionale nell’affrontare l’addomesticamento della donna e il lavoro di riproduzione sociale non salariato.

Anche in altri casi, Jürgenssen lavora con abiti femminili stigmatizzanti presentandoli come pesi fisici o protesi grottesche. Il conglomerato «Scarpa reliquia», «Scarpa ruggine (modello Mary Stuart)», «Scarpa rapace carina» e «Scarpa incinta» raffigura delle creazioni sculturali tra scarpe e predatore, tra cultura e natura, intorno al feticismo. L’immaginario dell’artista, oggi indagato come trans-umanesimo, consente di liberare ibridi, in cui l’animale viene ancorato, innestato all’interno dell’essere umano, confondendo i confini tra le identità normate e codificate.

Il corpus di opere in mostra, rende evidente che Jürgenssen era totalmente pronta ad andare oltre i confini fisici, mentali e sociali per ridefinire i concetti di genere e il rapporto materiale tra uomo e natura. I suoi numerosi autoritratti catturano tanto la gioia quanto il lato crudo che accompagna la rottura dei tabù sociali.

Oltre a una teca contenente alcune foto private, taccuini e schizzi, purtroppo non sono esposti materiali documentali e archivistici che avrebbero consentito un’indagine sul rapporto con le altre artiste (e i colleghi maschi), con il contesto socio-politico viennese e con le istituzioni culturali e accademiche, tutti aspetti rilevanti nella personalità artistica di Jürgenssen. Che cosa faceva l’artista quando non dipingeva? Non si fermava nell’ambito del privato, isolata dall’esterno nell’accettazione passiva dell’esclusione della donna dal mondo dell’arte. Insieme con le altre colleghe alzava la voce ed entrava nello spazio pubblico. Guardando indietro scrive:

«All’inizio la performance mi sembrava troppo diretta e io ero semplicemente troppo timida per apparire in pubblico: i disegni, poi le fotografie e gli oggetti erano usciti, certo, da una performance privata, ma successivamente li ho trasformati nel rispettivo mezzo. Per me, la performance è un’opportunità per mettere un problema specifico in forma drammatica e usare la presentazione di questo problema per suscitare una direzione diretta. La cosa peggiore per me è l’isolamento; un’azione o una performance pubblica è un atto comunicativo, un processo di apprendimento»

In una delle due lettere fatte recapitare alla casa editrice DuMont, in cui Birgit Jürgenssen richiedeva la possibilità e la sfida di produrre la pubblicazione di un’antologia su artiste donne, scrive:

«Le donne sono molto spesso l’oggetto dell’arte, ma solo in rare occasioni gli viene permesso, e con riluttanza, di esprimersi in parole e immagini. Mi piacerebbe avere l’opportunità di confrontarmi con artiste e colleghe e non solo con uomini» trovando degli spiriti affini in artiste come Meret Oppenheim e Louise Bourgeois il cui lavoro è considerato «più poetico, meno diretto e più sovversivo»

Nel 1975, insieme con 45 altre artiste austriache, si rifiuta di presentare una sua opera dentro la mostra progettata dallo Stato Austriaco in occasione dell’Anno Internazionale della Donna, voluto dall’ONU al Museo Etnologico di Vienna. Si trattava di una forte presa di posizione contro la giuria composta da soli uomini. La lettera, inoltre, rappresenta un documento politico molto importante che introduce una discussione auto-organizzata sulle condizioni di produzione dell’arte; nella prima parte viene motivato il rifiuto di partecipare all’esposizione, mentre nella seconda si formalizza la fondazione di un gruppo di lavoro non separatista che avrebbe seguito le varie fasi di discussione e preparazione di una rassegna alternativa all’istituzione statale come obbiettivo finale della rivendicazione.

Luise von Nobbe è nata a Kassel nel 1993. Ha studiato Storia dell’Arte a Dresda e dal 2017 frequenta la Nuova Accademia di Belle Arti (NABA) a Milano. Tra le sue principali preoccupazioni vi è il riconoscimento di artist* che rappresentano una minoranza, emarginati a causa del loro genere, della loro sessualità, origine etnica o religione. Vive e lavora tra Milano e Berlino.

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