Dario Pappalardo
Ironia e rivoluzione pre #MeToo

Se c'è un'artista da riscoprire in tempi di semplificazioni e di rabbia, è l'austriaca Birgit Jürgenssen (1949–2003). Che ha attraversato la seconda metà del Novecento con un femminismo gentile e pieno di humour. La Gamec di Bergamo le dedica la prima retrospettiva italiana: «Io sono», a cura di Natascha Burger e Nicole Fritz (fino al 19 maggio, catalogo Prestel). Un percorso di 150 apere con i media più diversi: foto, disegni, collage, sculture. Solo dieci anni dopo la morte, i suoi lavori sono entrati al MoMA e al Centre Pompidou e ora le mostre su di lei si moltiplicano, complice l'onda lunga del #MeToo. Che Birgit, però, avrebbe percorso a modo suo, senza generalizzazioni. È il concetto di identità che sta stretto all'artista. Gioca con i cliché del rapporto uomo-donna, restituendo l'idea che entrambi siano schiavi di modelli ripetuti per coazione. Negli autoritratti assume via via altre identità, cancella la sua: tra trucchi e maschere animali. Gioca con ossessioni e feticismi femminili: costruisce tacchi da innestare sulle braccia, sulle mani. Nelle scarpe che disegna spuntano carote o uomini acquattati, in mutande. Ma non c'è alcuna minaccia, nell'ironia di Jürgenssen, che indossa un grembiule comprensivo di cucina portatile: tanto per dimostrare che donna e focolare domestico sono un tutt'uno nell'immaginario collettivo. La complicata leggerezza di Birgit, che incarna un surrealismo tutto per sé, stupisce ancora.

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